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Lo studio si propone di analizzare la criptovaluta con il fine di dare una risposta alla domanda: il bitcoin è una moneta? Per i suoi estimatori la questione neanche si pone: non solo è una moneta ma sarà la moneta del futuro, e in parte già del presente, globalizzato. In realtà, il bitcoin non assolve nessuno dei criteri che identificano il denaro come lo abbiamo fin qui conosciuto: è sconveniente usarlo come mezzo di scambio per importi bassi o minimi; la sua divisibilità praticamente infinita, trattandosi di un numero, lo invalida come unità di conto per fissare i prezzi delle merci e dei servizi; l'estrema volatilità ne fa una riserva di valore ad alto rischio. Non solo: alcuni dei principi della sua "ideologia" - decentralizzazione, scambio peer-to-peer disintermediato, anonimato, sicurezza delle transazioni, regolamento del valore dato dagli equilibri di domanda e offerta, democrazia partecipativa nella gestione del sistema - sono così poco categorici da permettere l'obiezione alla pretesa d'essere una moneta che, per di più, fa a meno di quel sentimento che, sin dalle origini, è considerato indispensabile per essere accettata: la fiducia. Tanto che l'affermazione programmatica del Manifesto lanciato dal suo creatore, Satoshi Nakamoto: «Abbiamo proposto un sistema per le transazioni economiche che non si basa sulla fiducia» può essere letta come neanche tanto criptica ammissione che si tratti di qualcosa di diverso dalla moneta che, infatti, nella dicitura è traslata in "transazione economica". L'autore, pur riconoscendo l'inaudita novità e l'audacia della proposta, avanza l'ipotesi che bitcoin, al momento, sia qualcosa di simile alle "fiche" usate in quel casinò globale dove i veri giocatori, al netto degli utenti attratti dal richiamo di improvvisa e facile fortuna, sono i soliti signori dell'aristocrazia finanziaria e, con ogni probabilità, della criminalità organizzata.